Nella sua lunga carriera di scrittore il senso del mistero lo ha sempre accompagnato. Renato Pestriniero è una delle figure storiche della narrativa fantascientifica italiana e nei circa sessant’anni nei quali vi si è dedicato ha lasciato una traccia indelebile ottenendo alcuni tra i più importanti riconoscimenti letterari del settore, dal Premio Tolkien, al Premio Europa, al Premio della critica Ernesto Vegetti, vincendo anche numerose edizioni del Premio Italia.
Tra i suoi scritti maggiormente conosciuti citiamo il racconto Una notte di 21 ore dal quale il regista Mario Bava, con la sceneggiatura di Alberto Bevilacqua e Callisto Cosulich, realizzò nel 1965 il film Terrore nello Spazio che rimane una pietra miliare nei film di fantascienza italiana “che ha lasciato un ricordo indelebile nel pubblico internazionale”, come ha scritto Giuseppe Lippi nell’antologia Contact -Tutti i film su Ufo e Alieni (a cura di R.Chiavini, G.F. Pizzo e M.Tetro).
Ma c’è anche un altro scritto di Renato che avrebbe potuto divenire un film se solo il grande regista Federico Fellini fosse vissuto ancora. Inoltre, il Nostro ha altre due passioni che ne animano la creatività: l’arte pittorica informale e Venezia, la sua meravigliosa città. Abbiamo avuto il piacere di poter intervistare Renato Pestriniero, il quale con ampiezza di pensiero non solo ci ha parlato della fantascienza ma ci ha anche svelato tante altre cose della sua arte e di sé. A questo punto, se vi siete incuriositi (ne siamo certi), mettetevi comodi e leggete quello che ci siamo detti, non ve ne pentirete!
Buogiorno Renato, iniziamo da lontano: come nasce la tua passione per la fantascienza?
La mia passione per la SF nasce con me, anche se non sapevo che avrebbe avuto uno sviluppo così eccessivo con il lancio del primo vettore nello spazio. In realtà il primo racconto fu durante il servizio militare. Si trattava di Turno di guardia, scritto nel 1958. Ma già allora avevo quel senso del mistero che mi avrebbe sempre accompagnato.
Hai cominciato a scrivere negli Anni Cinquanta. Cosa significava allora in Italia dedicarsi a questo genere letterario?
A quel tempo esisteva una rivista che si chiamava Oltre il Cielo il cui direttore, Cesare Falessi, non era il mostro che guarda una riga sì e due no e se non gli piace butta via tutto, cosa che io ho sempre aborrito. Il racconto era I Silenziosi, gli piacque e lo pubblicò su Oltre il Cielo del 16/31 Luglio 1958. Purtroppo in ItaIia l’idea di dedicarsi alla SF veniva visto come qualcosa che non aveva niente a che fare con la letteratura, tanto che le fu appiccicato il nome di fanta-scienza poi rifatto in fantascienza.
Ho l’impressione che non ti andasse proprio a genio il nuovo termine…
A me non è mai andato giù il fatto di quel fanta che mi suonava tanto di fantasia. Attenzione però, io non avevo nulla contro chi scriveva fantascienza, era solo qualcosa che non sentivo mio, e quindi la presenza di alieni diversi dall’uomo l’ho lasciata sempre da parte. E qui vorrei fare una parentesi su ciò che veniva considerato fantascienza allora. Senza andare troppo indietro nel percorso letterario nazionale, già possiamo enumerare tanti movimenti letterari: Romanticismo, Naturalismo, Verismo, Realismo, Decadentismo, Crepuscolarismo, Ermetismo, Simbolismo, Futurismo, Surrealismo, Espressionismo, Sperimentalismo… All’interno di questo turbinare di correnti letterarie, i due autori che vengono avvicinati a un ipotetico fantascientismo (tanto per mantenere l’assonanza) sono abitualmente Dino Buzzati e Italo Calvino. Bastano? Tempo fa un articolo di Ferruccio Parazzoli, direttore degli Oscar Mondadori, mi ha spinto a scrivere “Alcune considerazioni sopra una naturale dissociazione nell’ambito della Science Fiction italiana”. Parazzoli diceva: “Il genere ha tutte le potenzialità del romanzo tradizionale con qualcosa in più: un elemento fisso che garantisce in partenza il lettore su quello che troverà nel libro. E poi forse Fantasy e SF sono ancora in grado di porre quei problemi filosofici ed esistenziali che il romanzo affrontava ai tempi di Dostoevskij”. Ma anche proposte di spessore avanzate da nomi quali Landolfi, Flaiano, Levi e altri non furono raccolte.
Da chi non vennero accolte?
Dalla critica ufficiale che si curava ben poco della SF in generale e per niente di quella italiana, e quando doveva parlarne, il termine fantascienza non veniva usato o tutt’al più messo tra virgolette per mantenere le dovute distanze e non abbassare un autore d’élite su un’area impropria.
Com’era definita la fantascienza?
Il dizionario della lingua italiana Devoto Oli alla voce fantascienza recitava un tempo: Narrazione o rappresentazione di vicende fantastiche ambientate nel cosmo apparentemente o parzialmente fondate su elementi scientifici. Nelle edizioni successive non si trova più la collocazione ambientate nel cosmo in quanto non è più soltanto lo spazio esterno l’arena dove si svolge l’azione ma anche lo spazio interno dei personaggi. E non importa che il poeta Andrea Zanzotto nel suo articolo “Sottofondi e implicazioni della Science Fiction” scrivesse: “E’ giusto quindi che la SF venga chiamata a sempre maggiori responsabilità, nel suo spalancarsi sugli spazi esterni e su quelli interni, sulla res estensa e sulla res cogitans (…) senza che venga perduto il sentimento di ciò che vale (nelle) piccole patrie (…) in cui l’originalità della cultura (…) trova il suo più netto e irripetibile suggello (…). Nulla di questo la SF cancella”. E non importa se per rimanere in casa Mondadori, lo stesso Ferruccio Parazzoli dichiarasse in un’intervista apparsa su Panorama del mese di giugno 1991 (a cura di Roberto Barbolini) che: “Forse solo la fantasia e la fantascienza sono ancora in grado di porre quei problemi filosofici ed esistenziali che il romanzo affrontava ai tempi di Dostoevskij”. Sarebbe bastato ricordare le parole di Raymond Chandler: “Soffermiamoci più su cosa può provare un uomo che la mattina si sveglia venti centimetri più alto, non cercare di spiegare perché è successo.” E poi Kafka insegna.
Ma la fantascienza che importanza aveva?
Nel 1982 a Trieste si festeggiò il trentennale della fantascienza italiana. Su Il Piccolo del 10 luglio apparve un’intervista a Carlo Fruttero. La domanda era: “Quale influsso ha avuto la fantascienza sui gusti e il costume degli italiani?” Ecco la risposta: “Sul costume spicciolo la fantascienza letteraria non ha avuto alcun influsso: ne ha avuto invece quella cinematografica, più o meno da Guerre Stellari in poi e questo grazie alla produzione di gadget, giocattoli, magliette e così via. Ma ci sono altre aree su cui il genere ha avuto un suo impatto. Il costume linguistico, per esempio. La parola fantascienza e l’aggettivo fantascientifico vengono usati, in italiano, con connotazioni molto elastiche. Sono, insomma, parole fortunate. Si pensi ai commentari di calcio quando dicono che un’azione è fantascientifica.
Dal tuo racconto Una notte di 21 ore, Mario Bava realizzò il celebre film Terrore nello Spazio. Quanto fu importante per te?
Continuai a scrivere racconti fino a quando, nel 1963, apparve il racconto Una notte di 21 ore su Oltre il Cielo. Fu pubblicato anche su Interplanet 3 di Sandro Sandrelli, redattore de Il Gazzettino di Venezia. Quello fu un avvenimento. I due interpreti principali Barry Sullivan e Norma Bengell erano due attori noti.
Comunque se vuoi più particolari li puoi trovare nel libro Oltre il Cielo (ciclo completo delle Edizioni Della Vigna); o in Mario Bava: All the colors of the dark di Tim Lucas, un volumone di 1128 pagine con tutte le opere di Mario Bava, una introduzione di Martin Scorsese e una foreword di Riccardo Freda. Comunque la cosa fu importante per me – seppure all’italiana – poiché l’unico importo che ricevetti fu di poche lire che divisi con Sandro Sandrelli. In ogni modo il film andò bene.
In quali grandi eventi italiani ed esteri fu presentato il lungometraggio?
Fu mandato in onda in televisione nel 1979 e nel 1981 fu presentato al Festival Internazionale del Film di SF Grinzane Cavour di Stresa; rappresentò il cinema italiano Dal libro allo schermo in A wondelfud World nel 1994 a Chicago; come Night of the Id in Apparent Realities a Washington; fu ripresentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2003 e poi riproposto su svariati album di cinema.
Qual è oggi la tua idea di SF rispetto al passato? E come ritieni sia cambiata nei tanti anni che l’hai vissuta da protagonista?
La mia idea di SF rispetto al passato non è cambiata, è cambiato solo il rapporto fra editori e opere. Mi spiego. Nel 1958, quando cominciai a scrivere SF, la mia idea era di scrivere ciò che succede ad un uomo alla presenza dell’ignoto e i libri che scrissi negli anni che seguirono non furono accettati. I racconti invece trovarono spazio sulla rivista Oltre il Cielo e di questo devo ringraziare Cesare Falessi. Inoltre Oltre il Cielo è il titolo che diedi ad un mio romanzo. Oggi anche i romanzi trovano spazio.
Perché? Cosa è avvenuto a tuo parere?
Ma perché la SF ha cambiato pelle, cioè parte della fantascienza è diventata Science Fiction: la fantascienza tratta l’horror alieno, e la Science Fiction l’Inner space, cioè quel qualcosa che nasce dentro di noi nell’immaginare ciò che verrà. Insomma quello spazio interno che James Grahan Ballard dichiarò, già negli Anni Sessanta, come Inner space. Aveva pubblicato un articolo dal titolo Which way to inner space? con il quale sosteneva che le trasformazioni più importanti non si sarebbero verificate sulla Luna o su Marte ma in noi stessi, in quello spazio interno che si sarebbe contrapposto allo spazio esterno. La produzione letteraria ispirata all’Inner space era sofisticata, a volte ermetica, faceva uso di modelli espressivi che si richiamavano a scrittori quali James Joyce, John Dos Passos e altri. Anche da noi ci furono tentativi per avvicinare nomi del mainstream attirati dalle possibilità nascoste di certa SF. Nelle antologie Interplanet curate dal veneziano Sandro Sandrelli troviamo Giovanni Arpino, Dino Buzzati, Carlo della Corte, Ugo Facco de Lagarda, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi, Elémire Zolla… Altri nomi avrebbero potuto esserci, direttamente o indirettamente…. penso a Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Margherita Hack… un po’ come successo in Inghilterra con Fred Hayle, Arthur Clarke e altri.
Quali erano le reazioni da parte delle élite culturali?
Alberto Moravia non usò equilibrismi. E’ difficile dimenticare come stigmatizzò Luce D’Eramo in occasione del Premio Letterario Città di Montepulciano nel 1986, rea di aver scritto Partiranno, e come lo stesso Moravia abbandonò il tavolo della giuria allorché si passò alla sezione nell’ambito della XII Convention di SF e del fantastico, evitando così ogni possibile contaminazione.
Ma ci furono tentativi di staccarsi dalla visione puramente ortodossa strettamente legata al genere della fantascienza?
E’ molto importante il fatto che, con la New Wave, ci sia stato il primo tentativo “made in Europe” di sganciamento della Science Fiction dalla canonicità delle sue origini e che questo sganciamento sia avvenuto attraverso una presa di coscienza in quell’area rimasta fino ad allora emarginata e cioè la sfera dell’uomo con il suo spessore psicologico, la sua interiorità di fronte al presente e al futuro, l’angoscia dovuta alle esasperate trasformazioni della società alle quali gli risulta sempre più difficile conformarsi o non vuole farlo, consciamente o inconsciamente. Quel movimento evolutivo squarciò il muro che impediva all’uomo di essere, nella Science Fiction, uno dei veri protagonisti.
Ci furono anche riflessioni sulle differenti ambientazioni delle storie…
Era il 1962 quando James Ballard (che aveva la fortuna di parlare inglese anziché italiano e di conseguenza poteva contare su una platea vastissima di ascoltatori) sostenne su New Worlds che la Science Fiction avrebbe fatto bene a voltare le spalle alla Space Opera perché gli sviluppi veri del futuro avrebbero avuto luogo quaggiù, ed era l’uomo che doveva essere esplorato in quanto il vero pianeta alieno era la Terra.
Secondo Heidegger, ciò che è veramente inquietante non è il fatto che il mondo diventi completamente tecnico, è di gran lunga più inquietante che l’uomo non sia affatto preparato a tale trasformazione. Quando Neil Armstrong fece il piccolo passo e contemporaneamente fece fare all’umanità il balzo gigantesco, fu un vero boato: cosa rimaneva da dire alla fantascienza dopo che l’uomo era sceso sulla Luna, anzi, allunato? (come si dirà in futuro… marziato, venerato, nettunato o plutonato?)
L’ultima porta è un romanzo di fantascienza molto apprezzato che interessa anche l’operato dell’uomo e le catastrofi cui dà origine. Osservando gli scenari geopolitici odierni e anche in relazione ai mutamenti climatici che si stanno verificando cosa ti viene da pensare?
Si tratta di un racconto lungo che piacque molto a Federico Fellini tanto da pensare a un film. Poi, purtroppo, non fu possibile a causa del suo malanno. Ricordo le sue parole nella lettera che mi scrisse: “L’ultima porta è un bel racconto e dovrebbe essere pubblicato su qualche rivista letteraria (…). Ho messo insieme appunti, note, accenni di storie ed è molto probabile che ne tragga un racconto per il mio prossìmo film.” Cosa penso? Quando mi viene in mente il signor Kim Jong-un e la sua Corea del Nord, quello che ha fatto e quello che farà… lasciamo perdere.
Cosa rappresenta per uno scrittore di fantascienza il progresso e oggi a tuo parere come viene utilizzato dall’uomo?
La fantascienza oggi rappresenta i due aspetti menzionati e, da un lato, abbiamo tutto ciò che un essere umano desidera. Per contro vedo l’avvicinarsi di una nuova guerra non dichiarata e che fa tabula rasa per poi ricominciare da capo. Come? Questo non lo so perché una guerra nucleare non l’abbiamo mai avuta salvo Hiroshima, ma quella fu prodotta da un unico Stato e fu un’ecatombe. Ma di questo ci sono libri che ne parlano.
Venezia è uno dei luoghi a te molto cari, cui hai anche dedicato degli scritti. Quanto è importante per te dal punto di vista letterario?
Venezia è un luogo che più il tempo avanza più si sgretola. Attualmente abbiamo una massa di stranieri che viene per vedere Piazza San Marco e basta. Ovviamente ci sono anche persone per bene che vengono per ammirare la natura di Venezia e quello che in passato è stato fatto nel campo delle opere d’arte. Non sto qui a descrivere tutto quello che è stato costruito sull’acqua. Per rappresentare tra le opere recenti c’è un libro fotografico Venezia e l’arte nascosta dove metto a confronto la natura veneziana con opere di grandi pittori. Poi c’è Report – Venezia sull’orizzonte degli eventi e Venetia Felix, sono libri dove ho voluto mettere in evidenza il degrado della città. E poi, a descrivere la possibilità di una rinascita, il romanzo Zenobia, città aperta.
C’è anche un altro campo che occupa la tua creatività ossia la pittura. Hai dei riferimenti tra i grandi artisti? Ce ne vuoi parlare?
La pittura che mi ha appassionato è stata quella legata alla SF degli anni passati e la situazione di Venezia. A questo punto si potrebbe pensare che tutto ciò mi abbia preso la mano, e sarebbe cosa comprensibile, ma siamo confortati dalle parole di personaggi piuttosto bene accreditati. Il surrealista francese André Masson disse: “Venezia è il contrario del Canaletto. Tutto è al di sotto, tutto è nascosto”. E un altro grande surrealista, Graham Sutherland, ebbe a dire: “Io la scruto [Venezia] ogni giorno nella mia cavana: è lì, attorno ai pali marciti, tra le alghe e le cozze”.
A ulteriore giustificazione mi permetto di disturbare il sommo Leonardo il quale, ossessionato da tutto ciò che fermenta nascosto, confessò: “Le machie de muri, la cenere del foco, le nuvole, i fanghi… nelle cose confuse l’ingenio si desta a nuove inventioni”. Ma non solo sono confortato da queste parole d’autore. L’estetica di certo degrado veneziano, derivato da indifferenza umana e da cause naturali, la troviamo nella filosofia giapponese Wabi-Sabi. Secondo Andrew Juniper: “Se un oggetto può provocare una sorta di malinconia e portarci a una visione spirituale,significa che quell’oggetto è Wabi-Sabi”.
Di cosa si tratta?
La filosofia Wabi-Sabi permea tutto ciò che non è opera di artifizio. Con il termine Wabi si intende il vivere naturalmente nel senso di saper vedere e apprezzare il lavoro della natura, mentre il concetto di Sabi si identifica nell’apprezzare i segni del divenire. I segni del tempo sulle cose crea in loro un’estetica che non è quella normalmente intesa oggi bensì le tracce della maturità derivata dal transeunte, dal vissuto, con tutto ciò che questo comporta: in altre parole il rifiuto della serialità e il fascino dell’unico, dell’irripetibile.
Hai idee o progetti ai quali stai lavorando?
Ora sto preparando un lavoro che ha attinenza con Venezia e l’estetica Wabi-Sabi, un libro fotografico che mostra quanto può essere suggestivo il fenomeno Wabi-Sabi con quello che si può vedere a Venezia oggi.
Non capita tutti i giorni di confrontarsi con uno scrittore che ha una lunga e feconda esperienza come te, per cui l’occasione è ghiotta per chiederti un consiglio da girare a chi scrive o a chi intende scrivere fantascienza…
Non so dare consigli. Forse i consigli si trovano nelle cose che uno sa di poter dare scrivendo. Più uno scrive più va avanti, se si sente di continuare senza badare a certi suggerimenti.
Filippo Radogna