Trent’anni fa Raffaele Nigro pubblicava per Camunia “I fuochi del Basento”, romanzo che lo lanciava nel panorama letterario nazionale portandolo a vincere il prestigioso Premio Campiello. L’opera è un viaggio antropologico intriso di un linguaggio tutto personale, supportato da un’inesauribile vena creativa a volte surreale. Tra rivolte di popolo, miseria e brigantaggio meridionale nel romanzo si narra un mondo di storie e leggende. Nel testo si intreccia il mito con l’ancestrale cultura contadina che rimane il simbolo di tutta l’opera dell’intellettuale melfitano. Nella scrittura di Nigro c’è la grande favolistica medievale ma anche quel realismo magico che ricorda le visionarie storie dei sudamericani Gabriel García Márquez e Jorge Amado.
Raffaele Nigro attualmente è operoso vicesindaco e assessore alla Cultura di Melfi, dinamica città del Nord della Basilicata dalle singolari peculiarità. Melfi è l’emblema della coesistenza dell’ antico con il postmoderno. Infatti, accanto al futuristico mega stabilimento industriale della FCA di San Nicola, ritroviamo il fascinoso grande castello di origini normanne, restaurato nel periodo Svevo, dal quale Federico II promulgò nel 1231 le Costituzioni melfitane, che diedero un’ impronta di modernità al suo regno. Vale la pena segnalare che proprio nel Castello di Melfi, in questo periodo, in collaborazione tra il Comune e il Polo Museale di Basilicata è in corso una retrospettiva sull’artista materano Luigi Guerricchio, che dipinse il mondo contadino e che fu stimato amico di Raffaele Nigro. Quest’ultimo, tra l’altro, ha contribuito con alcune grafiche dell’artista materano, che fanno parte della sua collezione personale, alla realizzazione dell’esposizione che rimarrà aperta sino al 20 novembre prossimo.
Negli ultimi anni, da quando Nigro è tornato in Basilicata da Bari, dove ha diretto la sede Rai (un ‘ritorno’ che rappresenta in senso lato “un’appartenenza ritrovata”, come ha scritto recentemente Giuseppe Lupo a proposito del nuovo libro del Nostro intitolato “Ritorno in Lucania”) è più facile incontrare lo scrittore-giornalista lucano, anche nei ricorrenti corsi di aggiornamento realizzati dall’Ordine dei giornalisti. Abbiamo avuto modo di intervistarlo recentemente in uno di questi appuntamenti, al Museo provinciale di Potenza.
Sono passati trent’anni dalla pubblicazione de “I fuochi del Basento”, com’è cambiata la tua letteratura e più in generale quella lucana?
Con un po’ di presunzione devo dire questo: nel 1986 – 87 qui avevamo ancora molte difficoltà a pubblicare con case editrici che avessero un certo valore, almeno in ambito narrativo. C’era lo strascico dei cosiddetti gruppi alternativi d’avanguardia che pubblicavano in proprio nelle “cento città d’Italia”. Quando Raffaele Crovi scoprì “I fuochi del Basento” e in qualche modo lo impose all’attenzione della critica nazionale e vinsi il Campiello, ci fu come un risveglio di attenzione perché l’editoria milanese si rese conto che c’erano narratori in tutte le province. Così gli editori smisero di cercare scrittori soltanto su Roma o Milano e girarono gli occhi anche verso le periferie più lontane. Il risultato fu che cominciarono a emergere tanti narratori della provincia e per quanto riguarda la Basilicata vennero fuori Gaetano Cappelli, Giuseppe Lupo e poi Mariolina Venezia, Andrea Di Consoli, Mimmo Sammartino. Cioè quel gruppo che conosciamo e quegli autori che poi hanno contribuito a far conoscere meglio, oltre i confini, questa nostra regione.
Alcuni di questi scrittori si sono innestati in quella vena di realismo magico della quale sei stato il caposcuola. Come si è sviluppata questa corrente nella letteratura lucana. Quanto è importante oggi?
Intanto diciamo che il realismo magico effettivamente nasceva allora ma affianco a questo nasceva anche una letteratura antropologica che ha dato poi i suoi frutti, non soltanto nella serie di romanzi che sono emersi ma anche nel cosiddetto progetto narrativo dell’Appennino. Così oggi, con il Consiglio regionale di Basilicata, realizziamo la rivista “Appennino”. Nell’ultimo numero abbiamo anche espresso un manifesto della ‘scrittura appenninica’.
Su cosa quali idee e presupposti si fonda il manifesto?
Ha una serie di principi quali per esempio l’utilizzo di sostantivi che fanno capo a una flora e a una fauna dell’Appennino che sono tipiche e diverse da quelle di pianura. Per esempio in pianura si coltivano le viti a tendone, invece sull’Appennino si trovano le viti a spalliera. In pianura hai le case a forma di cubo o di parallelepipedo, sull’Appennino hai invece tetti cuspidati e poi tutto gira sempre intorno ad un’altura, a un castello, una cattedrale, una chiesa madre. Per non parlare degli odori, il fatto che nell’Appennino si sente l’odore delle felci, dell’aria più pulita, dei fiumi, dei torrenti e delle fiumare, del fango; la pianura è invece più secca, in pianura c’è la corsa al divertimento. Sull’Adriatico, è tutto un ‘divertimentificio’. Tutti corrono verso il mare, mentre verso l’Appennino si corre meno. Anzi dai borghi dell’Appennino, che tra l’altro sono soggetti ai terremoti in questi ultimi anni si fugge. Ecco abbiamo voluto rappresentare tutte queste cose…
Insomma, un’iniziativa che parte dalla Basilicata per dare voce alle aree interne del Paese.
Sì, noi raccontiamo un’Italia che va dalle Langhe ai Monti Iblei. Raccontiamo le ascisse e le ordinate della cultura mediterranea e della cultura europea e in questo modo parliamo di un’Italia non più divisa in Sud Centro e Nord, ma di un’ Italia tirrenica, adriatica e appenninica.
Il romanzo di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, vincitore del Premio Strega quest’anno, in un certo modo si collega al ragionamento che facevi. Infatti lui parla della montagna, anche se si riferisce alle Alpi, come area marginale da tornare a tutelare e far vivere. Ma la letteratura italiana attuale che direzione ha preso? Quanto e cosa racconta dell’Italia e del suo territorio?
La letteratura di questi ultimi venti-trent’anni si è sganciata dalla grande cultura epica degli Anni VentiTrenta dell’Ottocento ed è andata sempre più verso un minimalismo metropolitano. Ancora oggi io credo che la stessa letteratura italiana corra verso questa letteratura metropolitana. Ogni paese crede di vivere ed essere New York. Prendiamo anche un autore come Cappelli che fa di Potenza una New York, come per dire non c’è differenza tra città e campagna, non c’è differenza tra Potenza e Coblenza, tra Potenza e Hollywood. Questo è un discorso che è stato aperto anche da Baricco, non c’è più legame con le radici, anzi bisogna tagliarle. Be, noi abbiamo invece inteso partire da Carlo Levi e da Cesare Pavese e parlare di una letteratura che guarda ai territori, dai luoghi da cui parte e ha trovato poi narratori come Sgorlon e Celati che ancora raccontano le storie dei luoghi da cui questa narrativa prende spunto e c’è una sorta di idiosincrasia tra le due forme di scrittura: tra quel minimalismo metropolitano di cui dicevo prima e questa narrativa antropologica che ha ancora dei fondamenti legati al paese, alla città, al luogo da cui parte.
E, in questo quadro, oggi, come ti inserisci ?
Avendo creato una letteratura antropologica e di un realismo magico, che oggi abbiamo sostanzialmente superato, non posso essere uno scrittore metropolitano. Ne pago le conseguenze perché i giovani fuggono dai borghi per andare nelle metropoli, così fuggono da una letteratura che parla del territorio per andare nella globalizzazione. Noi siamo per il locale!
A proposito di locale, Melfi, la tua città, è stata molto cara a Federico II di Svevia. Allo Stupor Mundi hai dedicato anni fa un’opera teatrale dal titolo “Hoenstaufen”, hai mai pensato di dedicargli un romanzo?
Ho scritto qualcosa che ho pubblicato nel romanzo “Il custode del museo delle cere”, però non sento ancora una forza di attrazione tale da correre verso Federico II…bisognerebbe fare un nuovo “Nome della Rosa”, in questo caso si dovrebbe chiamare “Il nome della Corona”!
Filippo Radogna