Vive a Recco (in provincia di Genova) e ha uno stupendo mare, a due passi da casa, ispiratore delle sue opere dalle atmosfere liriche e oniriche.
Gloria Barberi, autrice di testi di narrativa e di teatro, ma anche attrice teatrale, è stata un’animatrice del fandom della Sf italiana degli Anni ’80, periodo che ricorda con grande piacere. Ma Gloria ha anche altre passioni quali il canto (fa parte di un gruppo corale), lo studio e i viaggi nelle città d’arte, la fotografia e la musica new wave elettronica.
Abbiamo avuto il piacere di conversare con lei.
Come scrittrice nasci nel mondo del fandom degli Anni ‘80 quando collaboravi con riviste e fanzine tra cui The Dark Side definita da Vittorio Catani tra le migliori del panorama del fandom. Hai dei ricordi che vuoi condividere con noi? Collaboravi anche con Sf…ere, Pulp e varie riviste, insomma, com’era quel periodo e cosa vi animava?
Quello mi appariva come un periodo “pionieristico”, c’era tanto entusiasmo nel fandom e tanta voglia di fare, credevamo davvero di poter far nascere in Italia un movimento incentrato attorno all’amore per il Fantastico in ogni sua forma. Probabilmente eravamo ingenui. Nel corso del tempo ho visto il “movimento” frammentarsi dietro a differenze di gusti e opinioni politiche, a un certo punto venne a crearsi un’atmosfera del tipo: “Quel genere è di destra, quell’altro di sinistra”; “Se sei amico di Tizio non puoi esserlo di Caio”, e via così. Alcuni scrittori sono passati al campo professionale e hanno perso interesse per l’aggregazione e il semplice stare insieme in modo amichevole. Non voglio dire che ci sia chi è “salito sul piedistallo”, semplicemente la gente cresce e prende altre vie. Comunque quell’esperienza mi ha dato modo di intrecciare legami che durano ancora oggi, e di incontrare grandi figure di scrittori che conoscevo solo attraverso i romanzi, come Robert Silverberg, un nome per tutti.
Proprio con la sopracitata The Dark Side tra l’altro vincesti il Premio Terre Lontane, nel 1988, con il racconto “Come le bambole di notte” e poi pubblicasti nel 1990 il romanzo “I Custodi”, sostanzialmente definito dall’allora direttore editoriale Franco Ricciardiello come una meditazione sulla condizione umana e sulla vita, estremamente spirituale…
Tengo molto a “I custodi”, che nel tempo si è ampliato e arricchito di nuove scene e idee, cosa che succede inevitabilmente quando ritorno su vecchie cose anche soltanto per revisionarle. Purtroppo credo si tratti di una storia troppo intimistica per attrarre l’interesse di un editore. In effetti la fantascienza mi è servita solo da pretesto per esporre alcune delle mie idee sull’ecologia e sull’arte che io ritengo essere l’unico linguaggio universale capace di unire persone e culture diverse. La scelta del titolo ha una genesi un po’ strana, in quanto si tratta del titolo di uno sceneggiato radiofonico che ascoltavo da bambina, imperniato su un popolo alieno che difendeva i terrestri. Per la verità ricordo ben poco di quello sceneggiato, ma il titolo mi sembrava appropriato, e una sorta di “omaggio” a una delle mie prime “esperienze” con la SF.
Poi è arrivato anche il teatro con l’impegno sia nella scrittura di testi sia nella interpretazione di ruoli ricevendo vari riconoscimenti tra cui il Premio Moncalieri. Ci vuoi parlare di questa tua attività creativa?
Il teatro è una passione nata quando ero bambina, banalmente dalle classiche esperienze delle recite scolastiche, ma non avrei mai pensato di poter salire su un “vero” palcoscenico, anche se a un livello soltanto amatoriale. L’occasione si è presentata alla fine del 1996, con l’apertura di una di una scuola di recitazione presso un teatro appena restaurato, nel paese confinante a quello in cui vivo. E’ stata la curiosità di conoscere finalmente ciò che si nasconde dietro al mestiere dell’attore a spingermi a iscrivermi ai corsi. Da allora l’esperienza è sfociata nella costituzione di una piccola compagnia che ogni anno porta in scena un testo scelto tra lavori classici e moderni. Ci siamo cimentati tra l’altro con Neil Simon, Pirandello, Agatha Christie. Alla scrittura di testi teatrali sono arrivata su richiesta di un amico. Era nostra intenzione portare in scena una sorta di “spettacolo itinerante” nella cornice della città di San Marino, in occasione di una Italcon, così scrissi “Il palazzo della notte”, un racconto a tappe in forma onirica. Purtroppo il progetto non andò in porto, ma quando per caso mi capitò sotto gli occhi il bando del Premio Città di Moncalieri che prevedeva anche una sezione teatrale, pensai di partecipare proprio con quel testo. Non immaginavo di poter vincere.
Quanto nel teatro ci hai messo dell’esperienza da scrittrice di fantascienza? Hai trovato delle cose che accomunavano le due arti visto che hai sempre amato le atmosfere oniriche e liriche?
L’esperienza come scrittrice mi aiuta senz’altro a entrare nei personaggi, capirne le motivazioni, e a immaginare attorno a me ciò che la scenografia, ovviamente ridotta, non può riprodurre. Scrivere è un gioco solitario, il teatro è un gioco di squadra estremamente soddisfacente. Ciò che mi ritrovo a recitare è profondamente diverso da ciò che scrivo, dal momento che portiamo in scena soprattutto commedie, e io ho ruoli di caratterista. Ma il senso di straniamento dalla realtà che si prova sul palco è molto simile a quello che sopravviene quando ci si immerge nella scrittura. Si sta dando vita a qualcosa, anche se nella scrittura c’è una creazione immediata e indipendente, mentre nella recitazione di un testo ci si ritrova a ripetere parole e gesti appresi attraverso decine e decine di prove. Eppure anche in quell’occasione ci si ritrova a “creare”. E la creatività torna molto utile per far fronte ai più bizzarri imprevisti che possono capitare nel corso di uno spettacolo, tipo una musica che non parte, un oggetto mal posizionato che cade, un compagno che sbaglia o dimentica una battuta…
Alejandro Jodorowsky intellettuale, drammaturgo e regista teatrale sostiene l’idea del potere terapeutico dell’immaginazione. Per te cosa rappresenta?
Immaginare fa parte della natura umana. Non saremmo arrivati dove siamo arrivati adesso, nel bene e nel male, se fossimo stati privi di immaginazione. Ognuno poi possiede un suo mondo privato dove si agita ogni sorta di bizzarra fantasia. Penso che trovare il mezzo di portare fuori questo mondo, attraverso una forma artistica, sia il mezzo migliore per comunicare, a volte forse l’unico. Penso alle persone autistiche o con diversi problemi psichici, o semplicemente patologicamente timide. L’arte permette di connettersi agli altri e comprendere che, anche se nessuno è uguale a un altro, siamo tutti simili, di conseguenza non siamo soli. Attraverso l’immaginazione possiamo purgarci dalle nostre paure, riparare le ferite che la vita ci ha inferto ed esaminare possibili alternative per un’esistenza migliore.
Quali sono i tuoi programmi, pensi di tornare a scrivere e pubblicare narrativa fantastica? E cosa stai rappresentando invece a livello teatrale?
A dire il vero non ho mai smesso del tutto di scrivere, anche se mi sono allontanata dalla narrativa fantastica. Da anni faccio parte di un piccolo gruppo di scrittura creativa che si riunisce una volta al mese nella biblioteca del paese per discutere e confrontare i propri lavori costruiti attorno a un titolo deciso durante la riunione precedente. Si possono portare poesie, racconti brevi, ma anche immagini grafiche (cosa che io faccio spesso) o anche testi altrui che però ci ispirano. Da qualche anno, questo gruppo organizza uno spettacolino attorno a un tema diverso, nel quale ognuno porta il proprio contributo sotto forma di testi, immagini, musica.
Non so se tornerò, prima o poi, a cimentarmi con qualche opera letteraria più impegnativa. Come suol dirsi, ho un cassetto pieno di opere mai pubblicate, soprattutto romanzi. A richiesta di un’amica ho dedicato una pagina Facebook a “L’occhio sinistro di Horus”, la cui prima stesura risale agli Anni ‘90, una rivisitazione della scoperta della tomba del faraone Tutankhamon vista attraverso il filtro dell’esoterismo. Scriverlo è stato per me un divertimento, una di quelle occasioni per ficcare in una storia “di tutto ma proprio di tutto”, cercando però di restare coerente con la realtà storica. Cosa che del resto ho fatto spesso in molti dei miei racconti. Il prossimo impegno della Compagnia del Teatro San Giuseppe, riguarda Dario Fo e Giorgio Gaber. Del primo porteremo in scena un atto unico che stigmatizza l’ipocrisia della società borghese degli Anni ‘60; del secondo, alcuni dei monologhi più classici, tra i quali “Elogio della schiavitù”, che io ritengo attualissimo.
Allora restiamo sintonizzati e ci risentiamo su queste colonne per scrivere delle nuove performance di Gloria e della sua brillante compagnia teatrale!
Filippo Radogna