Quella che sta svolgendo come professore di italiano e latino nella Scuola europea di Bruxelles è tra le esperienze più formative della sua vita mentre fra le più esaltanti vi è stata la conoscenza del maestro della fantascienza Robert Sheckley che Bruno Vitiello ricorda come un sogno. Nato a Napoli, dove si è laureato in Lettere, Vitiello è un autore di fantascienza e di narrativa di genere, tradotto in varie lingue, si occupa anche di critica letteraria. Si dichiara un single per vocazione molto attratto dalle donne, predilige la fantascienza sociologica, poiché comunica idee, l’arte, gli piacciono i viaggi, la musica, la buona cucina e i buoni vini. Al momento sta ideando due romanzi e alcuni nuovi racconti, mentre è già al lavoro per un saggio in volume. Andiamo a conoscerlo.
Hai cominciato a pubblicare da giovanissimo, cosa non molto comune. Che ragazzo eri e che interessi avevi? Leggevi molto?
Il mio primo racconto pubblicato, come si evince dalla mia bibliografia aggiornata su Wikipedia, fu Cirano metallico uscito sulla fanzine romana Sf…ere nel 1983. Avevo 17 anni, ma in realtà scrivevo almeno dai 14 – 15 anni, cose che non avevo mai pensato di presentare a nessuno per la pubblicazione, ma sempre di genere fantastico, horror, fantascientifico, giallo. Erano quelli i miei interessi di scrittura, mentre quelli di lettura spaziavano in tutti i campi, leggevo anche moltissimi classici della letteratura di tanti Paesi diversi. C’è stato un lungo periodo, nella mia infanzia e poi nell’adolescenza, in cui in effetti ho preferito più leggere che “vivere”, anche se la lettura mi apriva di certo orizzonti più vasti e stimolanti del quartiere periferico di Napoli dove allora abitavo.
E da allora non ti sei più fermato…
Da allora ho pubblicato nell’ambito della sf sette romanzi (alcuni dei quali più volte ristampati da diverse case editrici), 33 racconti (36 se si contano anche gli ultimi quattro in via di pubblicazione) sulle principali riviste e antologie del settore, un romanzo giallo storico e un racconto giallo di tipo classico (il mio primo pubblicato e tra i vincitori della prima edizione di Giallo Latino), più una serie di pubblicazioni in altre lingue e una manciata di saggi sia nel campo della sf che del giallo. Il tutto, come dicevo, è reperibile nella mia bibliografia aggiornata: it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Vitiello.
Tra i tuoi tanti lavori scritti quale ritieni quello più riuscito o comunque qual è quello che ti ha dato maggiori soddisfazioni?
Amo indistintamente tutte le cose che ho scritto, come si amano senza parzialità i figli, anche se quello che prediligo, tra i miei lavori, è il romanzo Progetto Michelangelo, per l’originalità della trama e il riferimento ad uno dei più grandi geni figurativi della storia umana. Inserire la figura del grande Michelangelo, che tra l’altro ho studiato per anni a livello accademico (con relativo dottorato di ricerca) in un romanzo di sf è stata un’esperienza entusiasmante. Il fatto che poi sia stato definito da molti lettori uno dei più bei romanzi di tutta la storia della sf, non solo italiana, è per me un ulteriore motivo di soddisfazione, sebbene i gusti letterari siano, giustamente, vari e diversificati, e ciò che per alcuni è un capolavoro, per altri è un’autentica schifezza! Ma è questo il bello della letteratura…
Che genere di sf ti piace e quale valore dai alla letteratura fantascientifica? La ritieni anche un mezzo di denuncia delle storture dell’uomo verso la società?
Non ho particolare propensione per un genere di sf piuttosto che per un altro, e in generale non amo le etichette. Mi piace tutta la sf che sia vera letteratura. Cosa intendo con questo? Mi spiego subito: intendo quella sf (ma anche quel fantasy, quell’horror, ecc.) che tentino di comunicare ai lettori qualcosa di nuovo e originale, con storie scritte bene, con stile e soprattutto che abbiano qualcosa da dire, da comunicare, con personaggi fisicamente e psicologicamente ben delineati e approfonditi. Insomma letteratura, di quella che ti lascia, dopo la lettura, sensazioni forti e indelebili.
E cosa, invece, non ti piace?
Quella sf piena di cliché abusati e rimasticati, con personaggi come marionette senza spessore, con trame e atmosfere riprese dai film o dalle serie tv, così prevedibili che, se sei un vecchio e smaliziato lettore, riesci ad anticipare ogni cosa molte pagine prima che accada. Tutto questo potrà andare bene per il commercio (e neppure tanto) ma non è letteratura. In più, credo che sia proprio una particolare missione della sf cercare sempre il nuovo, il diverso, l’imprevedibile. Se proprio uno vuole cercare l’escapismo e il divertimento a tutti i costi, ci sono molti generi che possono garantirli assai di più.
Quindi cosa rappresenta la fantascienza per te?
Per me la sf deve restare una letteratura d’idee, altrimenti viene meno la sua stessa ragione d’esistere. Per quanto riguarda più strettamente la mia sf, oltre ad attenermi ai dettami illustrati sopra, mi è sempre piaciuto scrivere storie che riflettessero, come uno specchio distorto, i difetti e le problematiche più stridenti della nostra società, utilizzando a piene mani il sarcasmo e il gusto del paradosso. Una sf sociologica alla Sheckley (ma anche alla Pohl & Kornbluth o alla Brunner, se proprio vogliamo fare paragoni…) attualizzata e adeguata ovviamente ai nostri tempi, in cui la follia della realtà sembra spesso superare quella della più sfrenata fantasia. Sì, per me la sf è un ottimo metodo per criticare la realtà in cui viviamo, mettendone in luce le zone d’ombra e gli angoli oscuri e spesso inconfessabili. Una letteratura d’impegno, per nulla politically correct: è così che mi piace!
Però scrivi anche gialli e horror…
Sì, mi sono divertito a scrivere un solo racconto giallo (tra i vincitori della prima edizione di Giallo Latino, come ho già detto), e poi ho affrontato la stesura, molto più lunga e impegnativa, di un giallo storico ambientato nella Firenze dei primi anni del ‘500, nella quale Machiavelli, Michelangelo, Leonardo e il medico Fracastoro danno la caccia a un misterioso serial killer che ama anatomizzare le sue vittime. Anche sul romanzo storico ho una cosa da dire: si tratta di un genere che ha letteralmente invaso le librerie, quasi saturando il mercato. Nella maggior parte di questi romanzi (non in tutti, infatti apprezzo molto i romanzi storici di Giulio Leoni) ho però notato poco rispetto della storia: nel senso che gli ambienti, le atmosfere, i personaggi, i dialoghi sono trattati dall’autore nel modo in cui il lettore moderno si aspetta che fossero, e non come molto probabilmente erano davvero all’epoca. Questo crea una sorta di storia manipolata, falsificata, che non istruisce affatto il lettore ingenuo (anzi lo induce in errori e false visioni riguardo al passato) e allo stesso tempo delude il lettore più colto e smaliziato.
Vuoi dire che occorre maggiore attenzione da parte degli scrittori che si cimentano in questo genere?
Ecco, nei romanzi storici io desidererei più rispetto della storia, senza nulla togliere all’avventurosità della trama: si può fare, una cosa non esclude l’altra. Forse questo mio atteggiamento dipende anche da una deformazione professionale, essendo ricercatore in storia moderna oltre che insegnante. In ogni modo, nel mio romanzo ho cercato di attenermi alla realtà storica il più possibile. Ma io sono un perfezionista, in tutto ciò che faccio. Non pretendo la stessa precisione da parte di tutti, ma insomma un po’ di attenzione non guasta mai!
Mentre nei tuoi saggi quali tematiche hai trattato?
Per quanto riguarda la sf, mi sono dedicato all’analisi dei suoi rapporti con i grandi movimenti letterari dell’Illuminismo e del Decadentismo, poi ho esplorato il tema dell’utopia sessuale dal Rinascimento (epoca in cui sono specializzato, credo si sia capito) fino al Settecento, e ho in corso d’opera un voluminoso saggio in volume di cui però preferisco non anticipare nulla. Ho pubblicato anche uno studio “sull’eterno femminino” nell’opera di un giallista che amo molto, Cornell Woolrich, e qualche altro articolo sparso qua e là (uno di quelli che mi ha divertito e onorato di più scrivere, è stato un Pagina tre sulla gloriosa rivista Nova SF*, in un periodo in cui il direttore Ugo Malaguti cedeva la sua tradizionale e famosa introduzione a vari autori che stimava).
Parliamo un po’ del tuo lavoro. Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei italiani ti sei trasferito a Bruxelles, la capitale del Belgio.
In Italia ho insegnato italiano, latino, storia e anche geografia, secondo i classici curricola dei licei. A Bruxelles sono invece docente in una delle Écoles européennes fondate per l’istruzione dei figli dei membri della Commissione e del Parlamento europei, oltre che dei militari della Nato. Si tratta di licei internazionali frequentati da allievi di tutti i Paesi dell’Ue, dove insegno italiano e latino nelle sezioni italiane ma anche italiano come lingua straniera a gruppi-classe formati da non italiani. Un’esperienza molto interessante e formativa, da molti punti di vista. Riguardo alla cultura e alla vita quotidiana ci sono ovviamente molte differenze tra un Paese nordico come il Belgio e l’Italia, soprattutto per uno come me legato alla cultura, al clima e ai paesaggi del Centro-Sud italiano, ma le esperienze nuove, con tutte le difficoltà da affrontare e da superare, sono sempre un arricchimento.
Com’è l’Italia vista da lì?
In generale ho spesso riscontrato negli stranieri, soprattutto in quelli colti, un grande rispetto per la cultura e la tradizione italiane. A volte qualcuno vanta una maggiore efficienza dell’Europa del Nord rispetto a quella del Sud in relazione ai trasporti, alla logistica, alla sanità, alla burocrazia statale. Ma tutto sommato, dopo circa sette anni di permanenza all’estero, sono giunto alla conclusione di rivalutare l’antico detto “Tutto il mondo è paese”, per quanto a molti possa sembrare qualunquistico e superficiale. In realtà credo proprio sia così, fidatevi.
In tempi di pandemia si discute di chiusura delle scuole e del valore della didattica a distanza. Il filosofo Massimo Cacciari e altri intellettuali ritengono che tablet e personal computer non possano sostituire la socialità della scuola. Da docente cosa ne pensi?
Ho fatto esperienza di didattica a distanza qui a Bruxelles, da marzo fino alle vacanze estive. E in effetti devo ammettere che il contatto umano è una componente fondamentale per la trasmissione del sapere. Davanti allo schermo di un pc si perde molto della forza d’interazione, soprattutto a livello emotivo-relazionale, tra docente e discenti. Ma il vero problema, in fasi di recrudescenza del contagio, è se esista un’alternativa. La scuola, nonostante tutte le precauzioni che si possano approntare, resta comunque uno dei luoghi privilegiati per la trasmissione di infezioni di ogni tipo. Si tratta di una realtà che nessuno può negare. E allora? Privilegiamo la didattica oppure la salute degli allievi, ma anche dei loro parenti e dei professori? Credo che, davanti al superamento di una soglia limite di pericolosità da parte del contagio, sia ragionevole rinunciare a qualcosa a livello didattico in favore della salute, aspettando tempi migliori che, se seguiamo con saggezza tutte le regole e le norme anti-Covid, ho fiducia non tarderanno ad arrivare.
E quale differenza noti tra la scuola italiana e quella belga o europea e tra i giovani italiani e quelli belgi?
Non conosco la scuola statale belga, in quanto a Bruxelles insegno e ho insegnato solo nell’Écoles européennes che, come ho detto prima, ha un’utenza molto specifica e particolare. Si tratta di ragazzi cresciuti da sempre in una dimensione internazionale, che già da adolescenti padroneggiano alla perfezione tre o quattro lingue, molto motivati nello studio e discretamente ambiziosi riguardo al loro futuro. Hanno la preparazione e anche i mezzi per perseguire i loro sogni, cosa che spesso non capita ai nostri ragazzi in Italia, anche a quelli dotati e di buona volontà, a causa di problemi economico-sociali. In effetti gli studenti dell’Écoles européennes sono dei privilegiati rispetto a tanti dei loro coetanei europei e non, e ne sono perfettamente consapevoli. Come privilegiati sono i loro insegnanti, per il periodo più o meno lungo in cui prestano servizio in tali strutture, sia dal punto di vista professionale che di riconoscimento economico. Insomma, un altro pianeta rispetto alle scuole statali dei singoli paesi dell’Ue.
Hai conosciuto scrittori importanti, primo tra tutti Robert Sheckley (1928-2005). Come avvenne l’incontro, che emozioni ti generò e quali impressioni ne traesti?
Il mio incontro con il grande maestro della sf Robert Sheckley – grazie ai buoni auspici di Ugo Malaguti che riuscì ad averlo ospite a Bologna per una giornata – lo ricordo sempre come un sogno. Ancora adesso mi chiedo: è stato reale oppure no? Abbracciare un uomo che fino a poco prima era stato solo un mito, pranzare e dialogare simpaticamente assieme ad un’icona assoluta della sf mondiale fu un’esperienza unica, indimenticabile. Soprattutto perché mi diede l’occasione e la possibilità di conoscere lo Sheckley uomo oltre che lo scrittore che già conoscevo tramite la lettura di tutte le sue opere immortali. Una persona di grande gentilezza e pacatezza, con un sorriso saggio e un po’ triste, molto simile ad un anziano guru orientale che portasse sulle spalle il peso di un mondo di cui aveva con profonda ironia, a volte con feroce sarcasmo fustigato le ipocrisie, i vizi, le manie… E fui ancora più strabiliato quando proprio lui, il grande Sheckley, mi chiese con rispettoso interesse di spedirgli alcuni miei racconti in inglese, dei quali gli avevo raccontato le trame a pranzo, tra una tagliatella alla bolognese e un brasato, assicurandomi che si sarebbe impegnato personalmente per farli pubblicare negli Usa Gli erano piaciuti molto, anche solo a sentirseli raccontare. Purtroppo, poco tempo dopo, una maledetta polmonite presa in Russia, dove si era recato per presenziare a dei festeggiamenti in suo onore – era figlio d’immigrati russi negli Usa – lo tolse dal mondo per collocarlo definitivamente nella storia della letteratura mondiale e nei cuori di tutti noi appassionati di sf. Ciao, Bob. Grazie per la tua gentilezza.
Tra i maestri della fantascienza italiana, invece, hai avuto rapporti di amicizia e di lavoro con Lino Aldani (1926-2009), e con il già citato Ugo Malaguti. Cosa ti hanno insegnato?
Per quanto riguarda Aldani, anche qui la commozione è forte. Lino è stato per me, nel campo della sf, una specie di altro papà, così come Ugo Malaguti è stato una specie di fratello maggiore. All’inizio sentivo parlare di Lino da Ugo, di ritorno dai suoi incontri a casa del grande scrittore padano, quando avevano deciso insieme di rifondare e dirigere la gloriosa rivista Futuro con il nuovo nome di Futuro Europa, dedicandola alla sola sf non angloamericana. Una scommessa nella quale Lino Aldani non aveva mai cessato di credere, nell’ambito di quella valorizzazione della sf italiana ed europea che era sempre stata il suo fiore all’occhiello. Una scommessa nella quale anch’io, nel mio piccolo di esordiente ai primi passi, credevo fermamente. La prima scossa la ebbi quando Ugo mi riferì che Lino, notoriamente molto difficile e selettivo nella scelta dei racconti, aveva estratto il mio La linea gialla da un’enorme pila di dattiloscritti e l’aveva subito preso per il prossimo numero di Futuro. Da quel momento, i nostri rapporti umani e letterari si rafforzarono sempre più, ci incontrammo varie volte, pranzammo assieme, e anche di Aldani ebbi l’occasione di conoscere il profondo aspetto interiore, sempre coerente con quello che si evinceva dalle sue stupende opere.
Quale visione ti accomunava ad Aldani sotto l’aspetto intellettuale?
A Lino mi univa la visione di una sf come alta letteratura, come veicolo di stile e di idee, come affermazione di una cultura italica ed europea che nulla ha da invidiare a quella anglosassone. Raramente Aldani trovava difetti nei racconti che gli inviavo, e che pubblicò tutti facendomi grandi elogi che forse spesso non meritavo. Ancora adesso, rileggendo alcune sue lettere di accettazione (che conservo gelosamente) scritte a mano e piene di complimenti, non riesco a non arrossire. Grazie di tutto, Lino. Grazie per aver dato sempre più credito e fiducia in se stesso ad un ragazzo all’epoca pieno di dubbi, insicuro ma pieno di voglia di fare e di emergere. Grazie per aver visto in me cose che allora neppure io vedevo, per avermi incoraggiato ed aiutato in un settore duro come quello della sf italiana, da sempre litigioso e dove le critiche, di scuderia e non, sono sempre più frequenti degli elogi.
Parlaci del rapporto con Malaguti.
E grazie anche a te, caro Ugo Malaguti, nonostante il diverso rapporto di amore-odio che ci ha per lungo tempo uniti – anche se adesso non ci sentiamo né vediamo da tempo -, durante la bellissima, lunga stagione delle tue case editrici, stagione frenetica, durissima ma entusiasmante, durante la quale ho pubblicato i miei romanzi e racconti migliori con te che mi spronavi in modo duro, spesso crudele, in maniera molto simile a quella di un brusco sergente istruttore nei confronti di una recluta un po’ imbranata. Ma quando poi eri contento di me, allora i tuoi elogi erano profondi, sinceri, entusiasti. Il tuo modo di porti verso gli autori, il tuo atteggiamento era molto diverso da quello di Lino, ma complementare. Ci voleva un carattere forte, a volte brusco e burbero per tenere il timone di una media casa editrice di sf in quel periodo, e tu avevi tutte le qualità per farlo. Abbiamo vissuto insieme tante situazioni limite, ma anche tanti momenti esaltanti. Hai messo su una squadra di autori che s’incontravano, discutevano tra loro e si confrontavano per migliorarsi, e che hanno continuato a portare avanti una sf di qualità, anche se alcuni hanno abbandonato la lotta e si sono persi per strada… Per cui ringrazio anche te, per le belle e le brutte esperienze di quel periodo intenso, irripetibile per la sf italiana di idee.
Un’ultima domanda, il Premio Nobel per la Letteratura 2020 è stato assegnato di recente alla poetessa e saggista statunitense Louise Glück, docente all’Università di Yale, non molto conosciuta, in particolare in Italia. Hai letto qualcosa di lei o, comunque, ne avevi sentito parlare?
Devo confessare che non conoscevo la signora né la sua opera, ma pare che io sia in parte giustificato, in quanto ho letto che fosse molto più nota negli Usa che non in Europa. In ogni modo, il fatto che non fosse un’autrice da risonanza mediatica e commerciale depone bene, secondo me, per l’istituzione stessa del Nobel. Guai se l’Accademia di Stoccolma si lasciasse influenzare, come fa purtroppo ormai il grosso pubblico, dalla pubblicità e visibilità mediatica degli scrittori! Bene invece che continui a cercare autori da premiare tra quelli meno noti in quanto meno supportati dalla grande editoria: il Nobel non è un premio al numero di copie vendute e di traduzioni nel mondo, né ai film e alle serie tv tratte dai libri, per fortuna. E finché resterà così, magari abbiamo una speranza anche noi autori italiani di sf!
Filippo Radogna