Il suo è un duplice profilo, da artista visivo e da scrittore. “il7” – Marco Settembre (tutti i libri sono così firmati) è nato e vive a Roma.
Laureato con lode nel 2000 in Sociologia (indirizzo Comunicazione, con una tesi su cinema e videoarte) è giornalista culturale, pittore tra surreale e underground e ha pubblicato (e gli auguriamo ancora di pubblicare tanto) varie opere di fantascienza.
Quest’anno fa parte della giuria del Premio Vegetti nella sezione antologie.
Siamo curiosi di capire questa tua peculiarità nel combinare l’arte surrealista che scava nell’inconscio con la fantascienza…
Quando ho scoperto il surrealismo e la fantascienza, verso i tredici anni o poco prima, fui felice di constatare che esistevano opere eccezionali che andavano oltre la banalità del quotidiano, e iniziai subito a combinare questi due tipi d’espressione in un mix che era visionario ma anche molto ironico e, a tratti, all’italiana. Poi via via mi sono perfezionato maturando con l’età e con letture sistematiche, anche ampie, dai surrealisti Breton e colui che si faceva chiamare il Conte di Lautreamont, agli scrittori di fantascienza Sheckley, Goulart, Ballard, Gibson e Sterling, fino all’immenso Philip K. Dick, ma senza trascurare certi classici del genere come “Frankenstein” della giovane Mary Shelley e le opere di H. G. Wells, e guardando anche ai grandi del modernismo come Joyce, Kafka, la Woolf, Celine, fino al compianto e straordinario David Foster Wallace, e a De Lillo, che sono invece alfieri del postmodernismo.
Ma da giovanissimo scrivevi già?
In origine scrivevo solo abbozzi di storie (che poi non finivo) per divertimento: per il gusto sperimentale di tentare paradossi, bizzarri incipit, creare situazioni sorprendenti con personaggi imprevedibili. Terminai solo un racconto che era un po’ più ambizioso, ma andò perduto: persi malauguratamente il quaderno in un ristorante sulla via Aurelia vecchia. Si intitolava “Soli e avversi” e parlava di due sopravvissuti a una catastrofe, quindi apparteneva al cosiddetto filone post-apocalittico, e credo che ne fossi già cosciente nonostante l’età precoce. Per rispondere più specificamente alla tua domanda, direi che quando ero molto giovane non rimestavo davvero in profondità nell’inconscio essendo io felice, anche se orfano di padre dai quattro anni e mezzo, grazie a una vera e propria super mamma, però giocavo con l’inconscio in un modo prevalentemente virtuosistico, creando calembour, associazioni inconsuete e ironiche.
E quanto di questa ironia è rimasto nella tua scrittura oggi?
Ora che la mia scrittura è divenuta più matura e pessimistica – in genere creo distopie – l’ironia attraverso le forme del grottesco e del non-sense è ancora molto presente nella mia scrittura e questi accenti divertenti e coloriti servono ad attenuare l’impatto acido del resto, rendendo la mia formula stilistica abbastanza innovativa o almeno molto particolare. Provoco un sogghigno o un riso amaro, che sostiene nella lotta contro la disperazione. Anche nella vita bisogna essere pronti a questo. A causa di qualche passaggio di vita particolarmente difficile che ho attraversato, ogni tanto ora inserisco nelle mie storie qualche elemento che davvero ha a che fare con l’inconscio, e che la chiave sia autobiografica si intuisce, ma comunque cerco sempre di essere vario e di concedermi quell’altro principio cardine del surrealismo: la libertà artistica.
Posso chiederti in proposito cosa ti suscita la visione dei quadri degli artisti surrealisti? E quali sono quelli che maggiormente ti hanno ispirato?
I quadri surrealisti per me sono stati di grande ispirazione soprattutto nel lungo periodo della mia vita, dalla tarda adolescenza fino alla gioventù, in cui ho fatto il pittore. Salvador Dalì era un modello praticamente inarrivabile, e perciò io guardavo con interesse e ammirazione anche altri, tra cui Max Ernst. Un suo quadro molto importante, “La vestizione della sposa”, ebbi la possibilità di ammirarlo dal vivo, nonostante il vetro montato insieme alla cornice, in una fantastica mostra al Chiostro del Bramante, qui a Roma dove sono nato e vivo. La mia migliore tela di questo periodo si intitola “Ubiquità” e presenta una ripartizione di quattro scene in altrettanti quadranti: è una rappresentazione trionfalistica del tema degli universi paralleli, con il pittore stesso (sì, proprio io) come protagonista. È del 1992. Ma io apprezzavo molto anche alcuni autori della pop art, quindi quando crescendo appresi che il surrealismo veniva considerato un po’ retrò e che la pittura tradizionale in genere stava declinando, elaborai un tipo particolare di collage underground quasi materico e con inserti xerografici anche figurativi che in parte si rifaceva a un autore pop come Robert Rauschenberg e in parte al nostro Mimmo Rotella, ma essendo parecchio diverso da entrambi questi modelli di riferimento che infatti non avevo scelto consciamente e deliberatamente; solo dopo un po’ di tempo realizzai che c’erano queste plausibili ascendenze.
Hai fatto delle mostre, dove?
Sì, naturalmente ho partecipato a parecchie mostre collettive e qualcuna personale, ma al tempo gli operatori non davano forse tanto credito agli artisti giovani, quindi incontrai qualche difficoltà. Ad ogni modo ho esposto due volte nella galleria chiamata Palazzo Margutta nella omonima via di Roma, e poi l’ultima mostra fu invece al prestigioso Palazzo del Vignola a Todi. Nel 1994 vinsi la Coppa del Presidente della Giuria al concorso Omaggio a Chagall, presso l’Accademia di Romania, sempre a Roma. Soprattutto, però, sono stato tra i vincitori del grande concorso comunale “L’Arte a Roma”, nel 1997, con conseguente mega-mostra al Mattatoio di Testaccio!
Parlaci del tuo modo di produrre l’arte…
Attualmente non avrebbe senso parlare di come producevo i miei oli su tela; posso dire però che i miei collage, che variano dal genere mitologico al (nettamente prevalente) underground-sperimentale-industrial-fantascientifico, sono opere di 100 per 70 cm e in genere serve un mese di lavorazione per portarne a termine uno. Il secondo dei miei tre amici galleristi era impazzito per questo mio filone ed è stato solo per i miei problemi familiari prolungati e serissimi se non siamo riusciti a organizzare negli anni 2014-2020 la grande mostra che avevamo progettato. Ma per il futuro vedremo. Tornando a parlare di scrittura, che è il campo su cui sono concentrato più o meno dal 2002, direi che scrivo quando posso e anche di fretta e di furia, come sosteneva di fare Celine, ma io finisco col farlo invece spesso la sera o anche la notte, se non ho impegni di mattina il giorno dopo, perché c’è una maggiore concentrazione e anche il mood è quello giusto per un autore distopico come me che (con riferimento a Burroughs e al Lynch di “Eraserhead”) sono stato definito da qualcuno come un “Konnector”.
Quanto nella tua attività culturale influiscono gli studi in sociologia, scienza nella quale ti sei laureato?
In effetti, citando un celebre testo del sociologo Wright Mills, “L’immaginazione sociologica”, questo tipo di immaginazione ti porta a essere una persona capace di connessioni tra dati e idee e teorie differenti, cercando di cogliere quelle segrete corrispondenze nella foresta di simboli che è il mondo, di cui parlava in linguaggio poetico Baudelaire. Credo che cogliere nessi tra eventi e concetti apparentemente lontani tra loro sia un tratto molto distintivo, nell’intelligenza umana, che cerca un po’ affannosamente un senso nelle cose: in arte e in letteratura è ammesso l’azzardo, e quindi io mi posso configurare come konnector con il kappa. Ma in sociologia si deve essere invece rigorosi nel formulare ipotesi e sottoporle a verifica empirica ove possibile, altrimenti esaminando le cosiddette “serie storiche”, restando sempre pronti in futuro a falsificare le teorie messe a punto, nel senso di confutarle alla luce di nuove evidenze o all’insorgere di nuovi paradigmi. Ciò secondo i caratteristici cicli di cui parla Kuhn nel suo fondamentale “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”.
Giungendo alla scrittura fiction quanto tutto ciò incide?
È pressoché inevitabile che io che invento distopie ne faccia uno strumento di satira dell’attualità, anche se la mia spesso è una satira semiseria, e quindi ecco che a volte ricorro a delle citazioni sociologiche per evidenziare certi fenomeni e rimandare a quegli autori che prima di me ne hanno parlato in modo realmente serio e approfondito. Il mio è uno stimolo per il lettore, che se vuole può autonomamente andare a documentarsi seguendo questi che da tempo si chiamano riferimenti intertestuali nel senso che da un romanzo o un racconto fanta-grottesco-satirico mio si può saltare, come con un link, dalla citazione sulla pagina a un saggio storicizzato. Voglio ricordare che gli studi di sociologia dei mass media, e quindi anche con incursioni nell’arte e nella letteratura, uniti alla mia attività di giornalista culturale certificata dal tesserino da giornalista (conseguito secondo le norme e dopo il relativo esame nel 2012), mi permettono di essere anche un buon critico, nel senso di analista e recensore, delle opere altrui e di poter anche avere analoga consapevolezza di ciò che scrivo io, come spero risulti da queste mie risposte.
Hai pubblicato varie opere di fantascienza quali sono i temi che hai affrontato?
Io ho scritto finora tre libri, molto pochi in verità rispetto alle parecchie centinaia di pagine che ho scritto costruendo romanzi che sono ancora inediti perché in diversi casi non ancora conclusi. Tra questi vi è l’ambizioso “Progetto NO”, che ha già vinto un premio nazionale importante per il readings performativi con cui lo presento. Eppure ho un mio piano di carriera, diciamo così, e quindi penso che nel corso del tempo questo materiale verrà completato ed uscirà. Intanto riassumo i miei parti cartacei: “Esterno, giorno” (con le foto di un mio socio nell’operazione), che è surreal-esistenziale-ironico e dedicato a Roma, quindi non di fantascienza; poi “Elucubrazioni a buffo!”, che è invece tutto mio, un’antologia tra fantascienza e avantpop (misto di avanguardia e pop), che ha avuto un discreto successo (sette recensioni e quattro interviste al sottoscritto); e infine “Ritorno a Locus Solus”, ideale sequel dell’opera del proto-surrealista o proto-patafisico Raymond Roussel, scritto a quattro mani con un coautore che si nasconde dietro uno pseudonimo, e di cui ho curato anche l’editing creativo complessivo. In questa terza opera ho giocato ancora una volta sul limite tra fantascienza, grottesco e… ‘patafisica, appunto. Ma merita senz’altro una menzione, a proposito delle tematiche affrontate, il mio “Progetto NO”, focalizzato sulla cattiveria umana, che è quindi un romanzo sperimentale distopico, nichilista e movimentato ma che conserva come al solito la vena farsesca e grottesca
C’è una linea-teoria, un pensiero che ne emerge?
Certamente sì! Il mio pensiero come persona è profondamente etico e imperniato sui valori democratici di una sinistra moderna e progressista, ma quando scrivo fiction e costruisco distopie mostro un mondo cupo e beffardo in cui non si sa di chi ci si possa fidare, e i protagonisti sono anti-eroi che si dibattono tra un’infinità di altre figure o mezze figure che agiscono non di rado con violenza ma soprattutto si esprimono con una logica discutibile: in questo intendo davvero programmaticamente riflettere, un po’ sulla scia dei drammaturghi Beckett e Ionesco, l’assurdità della comunicazione umana, in cui anche secondo la mia esperienza, pur impegnandosi a volte per spiegarsi non si riesce a trovare una vera comunione con l’altro.
Come definiresti la tua science fiction?
La mia è una fantascienza sui generis, spesso distopica ma meticciata con elementi cyberpunk, e con i tratti grotteschi e surreali di cui parlavo prima. Alcuni autorevoli colleghi hanno detto che la mia scrittura è quindi molto densa, rutilante, non sempre immediata per il lettore pigro, ma anche divertente e piena di immagini e di movimento. Perché io, da ex artista visivo, continuo ad amare l’immagine e l’immagine-movimento (per dirla con Deleuze)!
(Riferimenti: “Esterno, giorno” ed “Elucubrazioni a buffo!” )
Filippo Radogna