In occasione dell’assemblea annuale della World SF Italia, l’associazione nazionale degli operatori del fantastico tenutasi a Pistoia il 23 luglio 2022, ho incontrato Bruno de Filippis con cui, sebbene si faccia entrambi parte di questa associazione, non ricordo di aver mai parlato prima. L’occasione è stata il Premio Vegetti, tenutosi durante il raduno pistoiese, in cui de Filippis ha vinto il premio più ambito, quello per il miglior romanzo di fantascienza con il suo “Toba” (Lastaria Edizioni, 2021), opera che ci parla di mondi paralleli e viaggi nel tempo.
Ho colto subito l’occasione per leggerlo, restando colpito dalla moltitudine di temi in comune con varie mie opere.
Quelle che lui chiama Terra 2, Terra 3, Terra 4 e così via, altro non sono, infatti, che gli universi divergenti del mio ciclo su “Jacopo Flammer e i Guardiani dell’Ucronia”: mondi ucronici nati da una divergenza temporale, mondi in cui la storia ha preso un diverso corso.
Il protagonista Claudio non solo si sposta tra questi universi divergenti, ma viaggia anche nel tempo con la mente, ritrovandosi nel corpo di altre persone, come gli Antichi di Lovecraft. La cosa strana è che quanto lo fa il suo corpo si mescola con quello dell’ospite. In particolare, si ritrova in una preistoria di 75.000 anni fa (Jacopo Flammer invece arriva ben 750.000 anni indietro) e si trova a combattere con una tigre dai denti a sciabola, in un’epoca in cui l’uomo non aveva ancora completato l’estinzione dei grandi mammiferi.
I suoi viaggi nel tempo creano mondi ucronici come con l’attentato alla vita del Presidente Truman, poco prima che questi impedisse a McArthur di usare la bomba H, creando così l’universo divergente detto Terra 51.
Se di solito nelle storie sui viaggi nel tempo gli autori si preoccupano dei paradossi temporali e di rimettere a posto il tempo alterato, “Toba” e i miei romanzi hanno in comune la medesima visione: i viaggi nel tempo creano universi divergenti, ma non mutano quello di provenienza del viaggiatore, che continua a esistere.
Al centro della trama c’è una grande catastrofe, che si ripete nelle varie epoche: l’eruzione del vulcano Toba, cui, forse, nel passato l’umanità è riuscita a sopravvivere per un pelo senza estinguersi ma che potrebbe ripetere la sua azione apocalittica.
Nei suoi mondi paralleli, de Filippis immagina delle realtà che mi hanno ricordato quella della mia saga “Via da Sparta”, soprattutto per le case che si estendono sottoterra e per la critica del sistema matrimoniale monogamico (i matrimoni sono a scadenza ma possono essere prorogati e “qualcuno ha formulato, di vietare per legge la quarta proroga della stessa unione. Patrick pensa che sia utile, per evitare quella che è stata definita la ‘sindrome di Stoccolma’ dei matrimoni, vale a dire la situazione nella quale uno dei due, succube dell’altro, accetti un prolungamento che in realtà non vuole”). Se in “Via da Sparta” si immagina una struttura politica molto diversa dalle attuali, anche in “Toba” troviamo un sistema meritocratico per l’elezione dei politici, con delle pagelle per le loro varie capacità.
Quando leggo di telepatia e di Talia, non posso non pensare a “La bambina dei sogni” e a “Psicosfera”.
Un’altra visione che condivido è espressa da de Filippis con questa frase “Noi cambiamo. Le cellule della pelle si rigenerano continuamente. Anche le ossa si dissolvono e si ricostruiscono a ciclo continuo, tanto che, dopo sette anni, non è rimasto neppure un frammento della struttura che avevamo prima. I ricordi scompaiono, le sensazioni si volatilizzano, le esperienze ci modellano continuamente: come possiamo pensare di essere la stessa persona di dieci anni fa o di un anno fa o anche di qualche minuto prima?” ricca di implicazioni narrative oltre che scientifiche.
Come finisce questo romanzo? In un libro con tanti mondi paralleli (meglio sarebbe dire divergenti) come potremmo avere un solo finale? Bruno de Filippis ce ne offre ben tre e conclude affermando, da buon ucronico alla “Slidding Door”: “Noi umani vogliamo sempre tutto ed il contrario di tutto e, scelta una strada, non facciamo che chiederci cosa sarebbe successo se avessimo preso l’altra”.
Carlo Menzinger