Daniela Piegai è una delle colonne portanti della scrittura fantastica italiana al femminile, vincitrice per due volte del Premio Italia e una volta del Premio Europa, e che nel passato ha pubblicato con storiche case editrici di fantascienza come l’Editrice Nord e Perseo Libri. Lo scorso 13 gennaio la scrittrice, giornalista e artista toscana (nativa di Cortona, città in provincia di Arezzo, dove vive e lavora) ha compiuto 80 anni. Per festeggiare l’avvenimento sono in corso, da parte di associazioni e amici, numerose iniziative culturali. E’ anche in tale quadro che si inserisce la ripubblicazione del fortunato romanzo “Il mondo non è nostro” stampato per la prima volta nel 1989 da La Targaruga Blu di Milano e recentemente rieditato da Delos Digital. Il romanzo si avvale della prefazione, rimasta quella originale, di Nicoletta Vallorani e della postfazione di Laura Coci. Nella storia si narra di un mondo senza futuro, né aspettative, privo di sogni con città ridotte in polvere dopo una terribile guerra. Sullo sfondo un’enigmatica Fortezza che può racchiudere una positiva sorte o mille altre minacce. Sarà proprio verso la Fortezza che un manipolo uomini, condotti da un impavido Capitano, si condurranno per comprendere cosa essa racchiuda. Daniela ci ha concesso un po’ del suo tempo per un’intervista.
Cosa rappresenta l’immaginario per te?
Ha sempre rappresentato il luogo della libertà, quello dove tutto è possibile, un ossimoro: una specie di utopia reale. Perché scrivendo, in qualche modo, attribuisci realtà al mondo che immagini.
Sei stata una delle prime donne a sfondare nella fantascienza, sin dagli anni 70. Che rapporto c’era prima tra le donne e la sf e secondo te cosa è cambiato oggi?
All’inizio ero molto isolata, scrivevo e basta. E scrivere è una attività solitaria. Se poi la svolgi con bimbi piccoli, un lavoro, e il resto della vita, non hai proprio tempo di collegarti alla società esterna. All’epoca non c’erano i telefonini. E il telefono serviva “per le cose serie”, tipo contatti di lavoro o contatti per la politica, che per un certo periodo ha fatto parte integrante della mia vita. Quindi non ho percepito difficoltà diverse da quelle che incontravo nelle altre situazioni. C’erano scalini in più da superare, per le donne, in tutti i campi. Adesso mi sembra che le cose vadano meglio. Se non altro c’è, diffusa, la consapevolezza che esiste il problema.
Sei stata e sei ancora una femminista?
Sì lo sono stata e lo sono tutt’ora, in un’accezione forse morbida, non so che altro aggettivo usare… nel senso che sono convinta che esistono differenze di esperienze, tra uomini e donne, ma non differenze di intelligenza o di capacità. E considero la parte maschile della popolazione come altrettanto ingabbiata in schemi, sia pure autoimposti. Compagni di strada che sbagliano, come si diceva una volta.
Nel tuo percorso nel sociale hai rivestito anche il ruolo di consigliere comunale. Di quale Comune e in quale formazione politica hai militato? Quali battaglie hai portato avanti?
Ero iscritta al Pci. Ricordo che avevo realizzato un lavoro per la Federazione di Milano, che riguardava l’ascolto delle trasmissioni radio e televisive, in alcune ore della giornata, per documentare in che ordine venivano date le notizie, e accostate a quali altre, per quello che riguardava il referendum sul divorzio, che ancora non era legge dello Stato. Evidentemente se le notizie venivano accostate ai bambini orfani che cercavano la mamma, avevano un impatto diverso rispetto ad essere date dopo un servizio sullo Stato sociale svedese, tanto per estremizzare. Così quando ci trasferimmo con la famiglia a Cortona, mi fu chiesto di impegnarmi in Comune, e fui eletta. Ma avevo pochissimo tempo e chiarii subito che non avrei potuto impegnarmi troppo. Praticamente servivo a fare numero.
Hai anche collaborato con varie testate giornalistiche tra cui una storica come Paese sera, di cosa ti occupavi?
Soprattutto di articoli di costume e colore, ma un po’ di tutto quello che serviva. Infatti quando poi Paese sera è fallito e sono passata all’Ansa, ho fatto fatica a riciclarmi nei testi asciutti della sola notizia.
Parliamo di attualità: l’avvocatessa pacifista iraniana e Premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi, a proposito della cosiddetta rivolta delle donne nel suo Paese ha affermato: “Il mio Iran è un fuoco che cova sotto la cenere. E le donne lo hanno acceso”. Cosa pensi di quanto sta avvenendo in Iran e della brutale repressione nei riguardi della popolazione da parte del regime degli ayatollah?
Nel 1977 e nel 1978, in piena rivoluzione khomeinista, io abitavo a Teheran, c’erano gli Sherman agli angoli delle strade, e saltava in aria un ristorante tutte le sere, perché i ristoranti erano frequentati dall’establishment e dagli stranieri. Allora molte ragazze lottavano per riavere il chador, che lo scià aveva proibito, perché lo percepivano come parte della propria storia, e percepivano come sopraffazione il divieto di usarlo. Il chador è solo un simbolo, che può essere usato in molti modi, molto simile a una pistola, che puoi usare per uccidere o per fare il tiro a segno. E’ un simbolo di oppressione, come la pistola è un simbolo di morte. Ma in gioco, c’è la libertà di scelta, che non c’era sotto lo scià, e non c’è sotto il regime islamico. E le donne, forse perché spesso ne vengono private, sono ultrasensibili sul tema. E’ una cosa che ti scivola sulla pelle, che avverti immediatamente.
Attualmente ti dedichi con particolare energia ed impegno alla pittura, quali temi tratti? A chi ti ispiri?
Forse perché da piccola mi dicevano che dovevo parlare solo se avevo qualcosa di interessante da dire e poi mi zittivano regolarmente, ho sempre avuto una grande passione per tutti i possibili tipi di alfabeto, dalla musica, alla parola, alla pittura… e ho sempre cercato di pasticciare con le storie e con i colori. Con la musica non mi è riuscito. Sono stonata, e mi limito ad ascoltarla. Non mi ispiro a nessuno, mi limito a mettere insieme i colori, come quando i bambini giocano con la terra. E’ un altro dei miei spazi di libertà.
Hai anche aperto una tua galleria d’arte a Cortona…
Ho una galleria dove tengo le mie tele. Ho provato anche con l’arte astratta, ma ho scoperto che ho bisogno di un contenitore per i miei colori, e così li spargo sulle figure, sulle case, sugli animali…che dipingo sulle tele: mi sono resa conto che la frase si presta ad equivoci. Giuro, non vado in giro a pennellare le case e gli animali altrui.
Sei impegnata nella narrativa e nell’arte da lungo tempo. Cosa è cambiato negli anni e quale funzione o influenza hanno a tuo parere oggi nella società?
La funzione dovrebbe essere sempre la stessa in ogni tipo di società perché parla, o dovrebbe parlare ai sentimenti, alle sensazioni. Se poi incide anche diversamente, meglio. Ma secondo me non deve essere didascalica. O comunque a me non riesce esserlo. Dovrebbe funzionare per osmosi…
… proprio come quelle tante interpretazioni artistiche che poi Daniela riesce a realizzare e restituirci attraverso le sue opere! (Se volete andare a trovarla vi segnaliamo che la sua galleria è ubicata in vicolo Venuti 4/6 – Cortona; aperta solo su appuntamento- cell. 338/5721245).
Filippo Radogna