Laureato in giurisprudenza, giornalista da poco tempo a riposo, Mariano Rampini è nato a Bologna nel 1953 e risiede in provincia di Rieti a Longone Sabino. Autore di fantasy e fantascienza, tra i vari riconoscimenti ha vinto il Premio Italia nel 1982, il Premio Amatrix nel 1983 e due volte il Premio Viviani nel 2019 e 2020. Forte lettore di fantascienza, horror (conserva gelosamente l’opera omnia di Stephen King) e noir per quanto riguarda la letteratura mainstream è un entusiasta lettore delle opere di Cormac McCarthy, grande scrittore statunitense scomparso quest’anno. Suona la chitarra con una particolare propensione verso il progressive rock. Ha una collezione di Lp e Cd di cantautori, con De André in testa. Segue cinema e serie televisive con molta attenzione. “In casa – ci racconta- con me e mia moglie Stefania, vivono quattro cani e sei gatti: una fonte di sorprese continue e di affetto peloso in senso buono…”.
“Alberi” è il tuo ultimo romanzo, scritto a quattro mani con Fernando Lizzani, in quale genere si inserisce?
Il libro nasce dal comune affetto che Fernando (anche lui, come me ex socio Anasf, l’associazione romana di fantascienza che mi diede i natali come scrittore) e il sottoscritto nutriamo per Pupi Avati. Lo consideriamo una sorta di maestro del folk horror (cito per tutti “La casa dalle finestre che ridono” e “Il signor Diavolo”). Abbiamo quindi pensato di omaggiarlo a modo nostro con un romanzo horror che riprendesse le sue atmosfere. A facilitarci il lavoro è il fatto che ₋ dopo cinquant’anni trascorsi a Roma ₋ adesso vivo in Alta Sabina. Tra boschi fittissimi. Un ambiente che ci è sembrato ideale. Che il nostro personaggio, poi, facesse di mestiere il “radiologo” degli alberi (idea di Fernando) ci ha permesso di costruire l’intero romanzo.
Il titolo può portare a pensare anche alla tematica ambientale visto che in questo momento storico la deforestazione è tra le cause del riscaldamento globale…
Che la natura abbia una parte preponderante è vero ma è una natura misteriosa che conserva i propri segreti. Non c’è un’idea strettamente ecologista a sorreggere la storia. Anche se il tema andrebbe comunque affrontato perché è nell’interesse di tutti farlo.
Mentre “Le Saghe di un mondo perduto” è il tuo primo volume. Un romanzo eroic fantasy nel quale sono le utopie a farla da padrone…
“Saghe”, abbrevio per comodità, ha una genesi molto particolare. È infatti composto da una serie di racconti apparsi nel tempo su varie pubblicazioni, prima dell’Anasf (mi fruttarono qualche premio già alle prime uscite) poi della Fanucci. Quando scrissi l’ultimo (“Last but not least”, ce ne sono un paio che seguono quel filo: uno pubblicato, l’altro no) l’amico Gianni Pilo, che ho perso di vista ma è una delle cose non positive della vita, mi spinse a raccoglierli in un unico volume scrivendo poi delle parti di collegamento che unissero un racconto all’altro. L’idea ebbe buoni riscontri e mi regalò un secondo posto al Premio Italia del 1990 a Courmayeur nella categoria romanzo. In quel caso lo spunto di base fu sempre la corruzione operata dal tempo sulle cose umane. Un destino comune a ogni grande civiltà. E che forse incombe anche sulla nostra…
Qual è, a tuo parere, il fascino e la forza dello scrivere di altri mondi. In questo senso che ruolo svolge la letteratura dell’immaginario?
Negli anni ’80, quando mi affacciai al genere come scrittore pur essendo un vorace lettore fin dalla tenera età, parlare di fantascienza come forma di letteratura era difficile. La si conosceva poco e, quasi sempre, l’unico paradigma al quale ci si riferiva era Asimov. Noi appassionati, al contrario, pur amando “il buon Dottore”, non trascuravamo l’onda lunga del rinnovamento che stava iniziando a inserire elementi letterari sempre più importanti. Tali da trasformare la bella sf d’antan in quella che oggi viene definita narrativa speculativa. Evito di fare elenchi di nomi (cito solo Dick, Zelazny, Delany, Disch e poi mi fermo) ma senza dubbio una maggiore ricchezza di tematiche legate all’uomo, ai suoi destini e al suo pensiero, ha creato i presupposti di una sua più attenta considerazione. Almeno tra coloro che hanno ampliato i loro orizzonti di lettura.
Come stanno mutando i contorni della letteratura di fantascienza?
Resta sempre una certa diffidenza verso il fantastico anche se la letteratura mainstream (l’arte in genere) ha da decenni attribuito valore fondante, chessò, al realismo magico. Se devo rimpiangere qualcosa è, forse, l’eccesso di attenzione verso la distopia. Che l’intera sf contenga comunque una visione non sempre positiva del futuro è cosa arcinota. Che questo elemento, comune a migliaia di opere, diventi però l’unico tema centrale mi preoccupa. Sembra quasi che il lavoro di autori come Iain Banks o, dopo di lui, di Ian McDonald o China Mieville (anche qui mi fermo a tre nomi) non venga considerato come fonte di ispirazione, soprattutto dai miei colleghi italiani. Il discorso si va facendo assai lungo e potremmo parlarne per ore. Diciamo che lancio questa pietruzza nello stagno. Poi mi nascondo per vedere che succede…
Ci sono altri tuoi volumi tra cui “I rangers di Rogers”. Si tratta di un’antologia di racconti. In una recensione su questo testo viene riportato che: “La storia di ciascuno di noi è la storia di tutti”. È questo il senso ultimo che dai alla tua scrittura?
Ti rispondo di sì ma non si pensi che la mia sia una visione junghiana. In realtà mi riferisco ai temi che, sostanzialmente, sorreggono qualsiasi tipologia di narrazione. I “rangers” e il romanzo che lo precedette “L’ultima notte dell’anno”, non fanno che riprendere in qualche modo una visione magica del racconto. Un po’ quella del narratore intorno al quale ci si radunava per ascoltare storie. Quei lavori hanno interrotto la lunga pausa che mi ha tenuto lontano dalla scrittura per troppo tempo. E ne è trascorso altro fino al 2019 quando, bontà sua, l’organizzazione del Premio Gianfranco Viviani mi assegnò il riconoscimento per la sezione fantasy.
Vincere il Viviani è stato un bell’incoraggiamento per riprendere a scrivere?
Infatti, da allora ho ripreso a scrivere con un ritmo accettabile. Non fosse altro per tentare di recuperare gli anni perduti. Il piacere di raccontare è comunque legato a filo doppio a una gran fatica, soprattutto adesso, con una concorrenza sempre più agguerrita. L’atto creativo della scrittura richiede un impegno continuo, anche nell’imparare dai propri errori, non fosse altro che per una forma di rispetto per il lettore, oltre che per dare forma a idee astratte, inserirle in un contesto e proporle al giudizio degli altri senza avere alcuna idea di quale possa essere. Resta solo la coscienza di aver dato tutto quello che sia ha. A volte anche qualcosa di più…
Il film “Oppenheimer” di Cristopher Nolan sta avendo un grande successo di pubblico e di critica. Si tratta un lungometraggio dedicato al fisico J. Robert Oppenheimer che lavorò al progetto sulla bomba atomica. Cosa pensi del rapporto tra scienza ed etica?
Una domanda da svariati milioni di dollari. Il progresso (parte integrante di ogni romanzo di sf) è inarrestabile. Fin dagli albori dell’umanità c’è sempre stato chi, davanti a fenomeni a volte terrificanti, si è posto la domanda: “Cos’è? Perché accade?”. Altrettanto inevitabile che qualcuno abbia pensato di sfruttare questo processo infinito per conservare o per allargare una determinata sfera di potere o, ancora, per trarne guadagno. È possibile una diversa visione delle cose? Forse sì: Albert Sabin, rinunciò a brevettare il suo vaccino antipolio. E fece di più: donò i ceppi virali a un suo collega russo, superando qualsiasi divisione politica in nome dell’umanità. Anche Oppenheimer lo fece scrivendo e lavorando per difendere la scienza dall’ingerenza della politica. Da eroe divenne capro espiatorio. Nonostante questo le due atomiche vennero sganciate. La scienza ha bisogno dell’etica come l’uomo dell’aria per respirare. Senza, rischia di restare prigioniera di sé stessa: come può esserci avanzamento scientifico se la ricerca fosse imperniata solo e soltanto su un unico obiettivo?
Hai lavorato anche per testate giornalistiche. Di cosa scrivevi e per chi?
Premetto che da due anni sono in pensione. In passato, dopo la laurea in Giurisprudenza, ho svolto vari lavori. Dal 1988 sono entrato nel rutilante mondo della carta stampata (si fa per dire…). Ho lavorato per testate, passate di mano a tre diversi editori nel corso degli anni, di politica sanitaria e sanità. In particolare per la pubblicazione della Federazione nazionale degli Ordini dei farmacisti italiani. Oltre a collaborare saltuariamente con alcune testate mediche e con quella della Federazione dei Collegi (oggi Ordini) Ipasvi, cioè degli infermieri professionali italiani. La redazione era assai piccola, con il sottoscritto che fungeva da Jack of all trades (tuttofare, ndr). Mi occupavo non solo di scrivere articoli ma anche del desk ossia titolazione, editing dei testi e tanto altro. La cosa mi ha imposto uno studio supplementare delle tematiche biomediche considerando che quasi tutte le testate avevano uno spazio dedicato all’informazione scientifica. E in qualche modo, considerando l’impegno quotidiano, mi ha indotto ad allontanarmi dalla scrittura creativa.
Progetti in corso?
Progetti tanti. Molti ancora nel cassetto, come un fumetto basato su un racconto pubblicato recentemente dalla rivista di WSF Italia. L’impegno quotidiano è invece su un romanzo che intendo proporre alla prossima edizione del Premio Urania. Ed è un lavoro faticoso proprio perché so che la concorrenza è fortissima. Poi ci sono almeno un paio di racconti in itinere anch’essi destinati a concorsi. Non dico di più per non dare troppe anticipazioni. Magari c’è in vista anche un ritorno sulla rivista di World Sf Italia?
Puntare al Premio Urania (senza nulla togliere a tutto il resto), dimostra che si fa davvero sul serio. Per cui, bocca al lupo!
Filippo Radogna