Ebbi modo di incontrare e intervistare Gianfranco de Turris, nel marzo 2015 a Fiuggi, durante la Deepcoon16. Saggista e giornalista, già vice capo redattore del Giornale Radio Rai per la cultura, tra i più accreditati studiosi della letteratura del fantastico italiano, de Turris in quell’occasione presentava il libro, realizzato con la collaborazione di Tania Di Bernardo, “Siamo noi i marziani – Interviste di Ray Bradbury” (Bietti).
Nell’incontro egli illustrò come l’autore di Fahrenheit 451 fosse stato un innovatore della science fiction rivolgendo lo sguardo anche verso il mainstream. Il testo raccoglieva dodici corpose interviste rilasciate da Bradbury tra il 1948 e il 2010, due anni prima che la sua vita si compisse. “Ray Bradbury – sostenne de Turris nel nostro colloquio – prima di tutto è stato un uomo libero, che andava contro la massificazione, contro tutti i tipi di dittature, sia quelle della maggioranza, sia quelle delle minoranze”.
A distanza di otto anni abbiamo nuovamente intervistato l’autorevole giornalista.
Mi piacerebbe partire dalla figura dell’intellettuale. Quale deve essere il suo ruolo nel tempo dell’IA/Intelligenza Artificiale e qual è il tuo pensiero in proposito?
Si dice, ed io stesso l’ho scritto, che le creazioni dell’uomo non devono prendergli la mano, che l’uomo insomma non può essere succube delle sue realizzazioni, tanto per dire la televisione o il computer. Il problema si complica assai da quando è stata creata l’Intelligenza Artificiale, qualcosa di più di un pc che si sviluppa ogni giorno che passa, vale a dire qualcosa che l’uomo ha costruito per pensare al suo posto, non solo per eseguire dei compiti, ma per pensare, ovviamente con i suoi limiti, a prendere delle decisioni. Considerate quante attività e funzioni si stanno affidando alla IA, di conseguenza se si seguono le cronache ci si rende conto che la faccenda potrebbe sfuggire di mano. Il ruolo dell’intellettuale, o meglio dell’uomo di cultura, dovrebbe essere sempre critico, anche nell’ambito di una situazione politica che può condividere. Gli yes-men non servono a nulla, chi ha una visione critica magari sarà considerato un rompiscatole, per usare un eufemismo, come è stato detto più volte anche al sottoscritto, ma ha una sua utilità perché non ha una benda sugli occhi, sia se è favorevole, sia se è contrario, alla società politica in cui vive. Tanto più se si diffonderà l’uso della IA che ragiona per noi, anche se teoricamente sotto il nostro controllo. Lui guarda la realtà in faccia, ragiona con la sua testa, anche se ovviamente non è detto che abbia ragione dato che anch’egli può avere dei pregiudizi.
Hai lavorato in Rai e diretto tanti programmi per molti anni per cui vorrei anche riferirmi alla figura del giornalista. Come ritieni sia cambiata la professione giornalistica nell’era di internet?
Fatti alla mano, credo sia cambiata in peggio. Intendo il giornalismo nel suo complesso, sia quello scritto che quello televisivo e radiofonico, che quello in rete, a causa di una reciproca influenza negativa nata dallo sviluppo e dalla affermazione definitiva dei nuovi mass media, e mi riferisco appunto a Internet, e quindi Facebook e Youtube. Intendo dire: in precedenza facevano informazioni soltanto i giornalisti, bene o male ma solo da parte dei giornalisti di professione.
E attualmente invece?
Oggi, da un bel pezzo, questa particolarità è scomparsa e fanno informazione tutti, praticamente chiunque dai 16 anni in su diffonde notizie, sempre e dovunque, direi a casaccio, tutti dicono tutto, e l’informazione si è trasformata in chiacchiericcio, diceria, pettegolezzo. Non si distingue più il serio dal ridicolo, il vero dal falso, l’importante dal superficiale…E una simile deriva, per contaminazione e concorrenza, ha contaminato tutto. Questa ovviamente è una considerazione e un bilancio mio, personale, ma non certo corporativo, come si dice oggi in senso negativo, nel senso cioè che solo i giornalisti iscritti all’ Ordine sono autorizzati a dare notizi e tutti gli altri no, ci mancherebbe. Sta di fatto però che il giornalista professionista ha, o dovrebbe avere, una sua deontologia e serietà che certo non hanno quelli che in rete discettano e diffondono informazioni che magari fanno solo comodo e che non devono rispondere a nessun se non ai codici civile e penale se superano certi limiti.
Passiamo al fantastico. Ti occupi di Lovecraft da tanto tempo, cosa è rimasto del suo spirito nell’horror e nella sf odierna?
HPL (Howard Phillips Lovecraft, ndr) da semisconosciuto che era in vita è diventato un autore di fama internazionale, tradotto in tutto il mondo, il che significa che il suo approccio all’horror ha influenzato gli scrittori contemporanei, anche se spesso in modo superficiale, non per nulla il suo nome è diventato un aggettivo qualificativo e sulla falsariga di “kafkiano” e “buzzatiano” esiste uno specifico “orrore lovecraftiano”. Più che il concetto di “altra realtà” ha però colpito soprattutto il suo pantheon alieno, diciamo i suoi “mostri” nella loro fisicità e non nel loro aspetto simbolico: elementi per distruggere e comunque mettere in crisi un mondo che il loro creatore avversava, ed è per questo, per far capire come veramente lui la pensava che nel 2007 abbiamo pubblicato ampi estratti del suo epistolario nel volume volutamente intitolato L’orrore della realtà (Mediterranee).
Il suo pensiero è ancora attuale?
Gli autori più validi hanno capito che dietro c’era la critica degli aspetti maggiormente deleteri della modernità che anticipa quella odierna, e non per nulla anni fa scrissi un articolo intitolato “Lovecraft nostro contemporaneo”. Sta di fatto, comunque, che il termine “mostro cthuloide” è entrato nel lessico degli appassionati per indicare il riferimento specifico, insomma non “mostri” qualsiasi!
Vuoi consigliare ai nostri lettori uno o più testi biografici sull’autore?
Per un approccio a HPL di tipo storico-culturale, ai suoi precursori, ispiratori e ai suoi epigoni (anche italiani) segnalo l’edizione molto ampliata dell’antologia I miti di Cthulhu edita da me e Fusco nel 1975, ultima fatica di Giuseppe Lippi per Mondadori e che uscì postuma nel 2019, un libro imperdibile per gli appassionati. Posso aggiungere che “una via italiana a Lovecraft” la promossi proprio io sin dagli anni 80, in parte anche grazie al Premio Tolkien, e fu Giuseppe che mi suggerì di pubblicare una antologia in merito: che chiamai volutamente Gli eredi di Cthulhu, sottotitolo significativo Nuovo orrore italiano (Solfanelli, 1990).
Il 2 settembre scorso sono stati celebrati i cinquant’anni dalla morte di J.R.R. Tolkien altro grande studioso, docente a Oxford, ma conosciuto soprattutto per aver scritto la celebre saga del Signore degli Anelli. Quale e quanto, a tuo parere, è importante la sua opera e che impronta ha lasciato nella letteratura, non solo fantastica?
Tolkien ha un’importanza fondamentale non solo nella narrativa fantastica ma nella letteratura in generale. La sua fama (”il mio deplorevole culto” lo definiva) nacque dieci anni dopo la pubblicazione della trilogia, quando nel 1965 Il Signore degli Anelli apparve in edizione tascabile negli Stati Uniti e fu scoperto dalla generazione degli hippy che ne fecero, come si disse, la loro “bibbia”. Dopo di che dilagò (in Italia venne tradotto cinque anni dopo) ed ebbe un successo che perdura ancor oggi in tutto il mondo, anche quello non occidentale, a dimostrazione che i valori di cui parla valgono per tutti e per sempre. Aspetto fondamentale che in molti ancora non capiscono e accettano.
Tutti, quindi, si possono riconoscere nel suo messaggio di fondo…
Questo particolare ne spiega la ragione. Tolkien ha descritto un Medioevo fantastico con i suoi aspetti positivi e negativi, un mondo ideale di valori eterni in cui tutti si possono riconoscere, sinistra, destra, centro, per usare termini politici, come scrissi già moltissimi anni fa presentando la fondamentale biografia dedicatagli da Humphrey Carpenter.
Qual era il suo intento?
Come si dovrebbe sapere il professore aveva intenzione di realizzare una mitologia per il proprio Paese, l’Inghilterra, che a suo dire ne era prova: il risultato non voluto fu una invece valevole per tutti, non solo gli inglesi. Un Mondo Secondario, come lo definiva, completo di ogni particolare, compresa una cosmogonia descritta nel successivo Silmarillion. Scrisse tanto in merito che ne sono stati pubblicati dodici volumi dopo la sua morte. Una realtà parallela di riferimento ideale da contrapporre alle brutture del Mondo Primario in cui vivono i lettori, ma anche l’autore. Un mito in altre parole con tutte le caratteristiche e potenzialità che esso possiede, esattamente come lo teorizzava Mircea Eliade che, a quante ne so, Tolkien non conosceva. Il professore era così partecipe emotivamente della questione che nel suo saggio Sulle fiabe, scritto per rispondere alle critiche mosse a Lo Hobbit, uscito nel 1936, afferma che non si tratta di una “fuga dalla realtà” secondo accuse scontate anche al suo tempo, ma della “evasione del prigioniero” dal carcere della Realtà. Parole sacrosante che non tutti oggi ricordano in buona o mala fede.
Sei direttore responsabile del magazine Dimensione Cosmica, come sta andando questa esperienza?
Nel 2023 Dimensione Cosmica ha compiuto sei anni di vita e pubblicato 24 fascicoli e ha ormai lettori affezionati che le consente di andare avanti tranquillamente, tanto è vero che da un paio d’anni le sue pagine sono passate da 80 a 96, decisione presa per la quantità e alta qualità del materiale che ci perviene e che ancora adesso spesso ci giunge da firme in precedenza sconosciute.
Cosa distingue e caratterizza Dimensione Cosmica?
Ciò che la distingue dalle altre poche esistenti è l’essere dedicata, come spiega il sottotitolo, alla “letteratura dell’Immaginario”, quindi non ad un unico genere (fantascienza, fantastico, orrore o altro), senza alcun pregiudizio, anzi il suo scopo è proprio questo di rappresentarlo in modo complessivo se non compiuto. Infatti, se si deve trovare un difetto nell’attuale dibattito sulla “fantascienza” è che esso sia troppo settoriale.
Com’ è cambiato il dibattito nella sf rispetto al passato?
Rispetto a decenni fa la fanno da padrone i cosiddetti social media dove ognuno, preparato o impreparato che sia, dice la sua senza filtri, spesso pontificando con tono saccente. Illo tempore esistevano i fanzines cartacei, stampati o ciclostilati, di poche centinaia di copie e anche meno che magari si accapigliavano fra loro, ma si vede bene l’enorme differenza con il nostro presente. Quello che ho trovato piacevolmente sorprendente, come ho accennato prima, è che si sono avvicinati alla nostra rivista nomi in precedenza sconosciuti come narratori inviandoci testi molto originali che devono purtroppo attendere il loro turno data la a scadenza trimestrale. Quanto agli articoli, di critica o di approfondimento, non abbiamo alcun pregiudizio ad affrontare alcun argomento, anche collaterale ai nostri generi letterati codificati, anzi più si scoprono territori sconosciuti meglio è.
Giornalista, studioso, narratore, saggista. Qual è il ruolo nel quale senti di esprimerti meglio?
Francamente non lo so, in tutti forse, dipende, credo, dai momenti, dalle occasioni. Tanto per fare un esempio, non ho scritto più narrativa per venti anni, dall’inizio degli anni duemila, poi si è presentata un’occasione e ho scritto qualche racconto senza grande difficoltà perché le idee sono venute come sempre non si sa da dove, forse dall’Iperuranio, ma sono venute e soddisfacenti. Forse è il momento giusto, forse lo stimolo giusto, forse l’ispirazione giusta, non lo so. Lo stesso vale per gli altri ambiti: non scrivo più tanti articoli come una volta, direi molto pochi (del resto non frequento la Rete), ma se c’è lo spunto sul piano della cronaca, della cultura, della politica che merita di essere commentato e approfondito magari polemicamente, lo faccio volentieri, ci provo sempre gusto. E lo stesso vale se, in qualche caso mi si chiede un intervento saggistico nell’ambito dei miei interessi, o se mi si propone di mettere in piedi una antologia a tema, anche se questo è ormai per me un lavoro assai faticoso. Quel che mi ha sempre fregato, soprattutto da giovane, è che ho avuto molti e variegati interessi che mi entusiasmano sempre ahimè e che quindi mi fanno intervenire su vari fronti, spesso assai diversi fra loro. Guardandomi alle spalle, controllando vari cataloghi bibliografici, penso proprio di aver fatto troppe cose, e certe volte mi chiedo come ci sia riuscito…. Ogni tanto scopro libri che ho curato o introdotto e di cui mi sono completamente dimenticato! E me li vado a ricomprare in rete: mi è successo di recente con Le miniere di re Salomone di H. Rider Haggard uscito negli Oscar Mondadori negli anni 80 quando non esisteva ancora il computer… Ho la consolazione di, come dire, vivere adesso di rendita potendo pescare quando è il caso nelle riserve del mio pc, anche se solo per quanto scritto da quando lo uso (e non era il caso del libro di Haggard)!
Materiale che magari può essere raccolto in uno o più preziosi volumi da divulgare tra gli appassionati di letteratura dell’immaginario.
Filippo Radogna